15/10/2023 - editoriale del direttore de La Stampa Andrea Malaguti
L'emozione e il cuore del ricatto di Hamas. Coinvolge tutti, coinvolge anche me. La violenza inghiotte ogni cosa, confonde i pensieri, rende i ragionamenti complicati, alimenta la cattiveria e i fanatismi. I morti si calcolano a migliaia, l’orrore scatenato dai macellai di Yahya Sinwar può avere conseguenze irrimediabili sulle nostre esistenze e, in un perverso effetto domino, mettere fine al mondo fondato sulle regole che abbiamo conosciuto dopo la Seconda Guerra mondiale e che rassicurano noi occidentali sempre più incerti sui valori ai quali aggrapparci.
I carri armati di Gerusalemme sono entrati a Gaza allargando la scala degli attacchi, le vittime innocenti si moltiplicano, i cadaveri riempiono le strade, la popolazione fugge verso sud e nessuno è in grado di capire fino a che punto affonderà la spada Israele e quanto la diplomazia internazionale, guidata da un’amministrazione americana impegnata sul fronte ucraino e sfiancata dalla campagna elettorale permanente, riuscirà a limitare danni già incalcolabili. Gridare la parola "pace", cercarla con tutta le capacità che abbiamo, sembra fuori tempo e fuori luogo. Eppure - con la Bbc che racconta di ragazzini uccisi dai razzi mentre cercavano la fuga attraverso i corridoi umanitari - non è mai stato tanto necessario.
Lestremismo scatena estremismo, l'odio moltiplica l'odio, la violenza chiama violenza ancora più feroce. Gli sconosciuti kibbutz di Be'eri e Kfar Aza sono entrati a far parte del nostro immaginario collettivo e per quanti sforzi si facciano e impossibile umanizzare il terrorismo. Non c’è umanità in chi si muove come le unità mobili di sterminio naziste. La caccia casa per casa, le donne violentate, umiliate, i bambini uccisi, torturati, usati come scudi umani, scuotono le coscienze.
Ed è impossibile comprendere perché oltre a rapire gli ostaggi e trattare per la loro vita, i barbari sunniti abbiamo preteso questo sconvolgente tributo di sangue. Eppure, proprio ora, bisognerebbe avere la forza di non speculare sull'orrore, di capire come contenerlo, sapendo che fermarlo sarà impossibile.
Ci siamo chiesti a lungo se pubblicare le fotografie dei neonati martoriati a Kfar Aza. Pieni di dubbi, abbiamo deciso di no. Non perché sia inutile mostrare la verità dei conflitti, al contrario. Ma perché quei minuscoli corpi non sarebbero stati usati per suscitare pietà, per aiutare la comprensione, per ridefinire la portata di questa tragedia immane, ma per fare propaganda.
Esattamente quello che è successo e che continua a succedere, a cominciare dal nostro Paese.
"Dobbiamo avere la forza di distinguere Hamas dai palestinesi". Lo hanno detto assieme Guido Crosetto ed Elly Schlein, ma il messaggio stenta a farsi largo, quelle immagini non aiutano, diventano bandiere di parte. E mentre nelle piazze ricominciano i piccoli scontri delle frange più scalmanate e ideologiche e in un’ Europa sempre più assente, riemerge - intollerabile - il veleno antisemita. E un problema che abbiamo in casa, basta guardare alla Francia degli allarmi continui, al Belgio, alla Gran Bretagna.
Meno significativamente all'Italia, ma girarsi dall'altra parte non è più consentito.
Gli ebrei sono un popolo traumatizzato dall'Olocausto. «La creazione di uno Stato – ha spiegato la scrittrice Zeruya Shalev al "Fatto" – è stato questo: il bisogno di sentirsi difesi, di sentirsi sicuri, la speranza di non essere mai più vulnerabili». La barbarie di Hamas ha mandato in frantumi quella speranza, mettendo a nudo i limiti della dilettantesca e aggressiva politica di Netanvahu, convinto di derubricare la questione palestinese a minuzia, forte della sostanziale indifferenza del mondo arabo, certo di un nuovo patto con i Sauditi, ossessionato dall'idea di manipolare il sistema giudiziario. Miopia interna e internazionale. Scelte che hanno lacerato il Paese (spingendo milioni di persone nelle piazza) e facilitato l’operazione selvaggia di Hamas. Un piano costruito negli anni, sostenuto da parte di una popolazione cresciuta nell'odio e costretta (come ha scritto su questo giornale Francesca Mannocchi) a vivere nelle prigione a cielo aperto chiamata Gaza.
Non c'è bisogno di essere "peacenik" per continuare a credere nei due Stati, anche sapendo che la soluzione non e mai stata tanto lontana, che gli opposti estremismi crescono e si radicalizzano e che nella West Bank i coloni imbracciano le armi contro i palestinesi. Chi ha la forza, ora, di impedire il caos? Davvero qualcuno immagina che tutto questo abbia a che fare con Dio? Ma quale Dio? Hamas ha scoperchiato il vaso di Pandora. «Noi israeliani paghiamo il prezzo di anni di arroganza, durante i quali i nostri governi, e molti cittadini comuni, si sono sentiti talmente superiori ai palestinesi, da permettersi il lusso di ignorarli. Israele ha rinunciato a qualunque tentativo di fare la pace con i palestinesi e per decenni ha tenuto milioni di loro sotto occupazione», lo dice lo storico, filosofo e sociologo Yuval Noah Harari, nato a Kiryat Ata e laureatosi al Iesus College di Oxford. Ed Etgar Keret, in una magnifica intervista concessa a Giulio D"Antona su La Stampa, aggiunge: «Per Netanyahu chi non odia tradisce».
Basta. Ora bisogna raccogliere i cocci, è tardi per guardarsi indietro. E più utile interrogarsi su come neutralizzare Hamas, nemico sunnita sul fronte interno, e contemporaneamente Hezbollah, nemico sciita sul fronte esterno. Piccoli margini di manovra esistono ancora.
Il silenzio della Cina e la solidarietà dell'India a Israele fanno capire quanto nessuno (neppure i paesi più ostili all'Occidente) ami fare i conti con i terroristi.
Il peso grosso del fardello diplomatico è sulle spalle di Washington (il timore di essere trascurati è di Kiev), mentre i russi possono gioire per un altro scontro che appesantisce l’alleanza atlantica. Le carte si confondono. L’Iran, che benedice la carneficina di Hamas pur dichiarandosene estraneo, incassa due risultati: la sospensione degli accordi tra Israele e Sauditi e il calo della pressione internazionale per la spietata compressione dei diritti civili, a partire da quelli delle donne, a Teheran.
Quanto all’Europa, ancora una volta, ribadisce la sua inesistenza. La mancanza di una difesa e di una strategia comune, rese impossibili dal voto unanime su qualunque visione futura e da retrivi e sempre più diffusi impulsi nazionalistici, impediscono l'assunzione di un ruolo significativo in un quadro destinato a mutare a seconda delle decisioni dei generali di Gerusalemme.
Finché sarà in piedi una trattativa sugli ostaggi è difficile immaginare che Israele dia il via libera ad azioni definitive. Ora che Netanyahu è finito (nel modo peggiore), le feluche cercano di evitare l'abisso collettivo. I tempi sono strettissimi.
Uno spiraglio però esiste, se è vero che di fronte a questo cataclisma le Borse non hanno subìto scossoni rilevanti e il prezzo del petrolio – a differenza di quello che accadde 50 anni fa con la guerra dello Yom Kippur – è salito lievemente. I paesi arabi non sono compatti contro Israele come un tempo. Là dove si è incontrato, si è guardato negli occhi e ha discusso, il mondo in qualche modo è andato avanti. Ma ora, come si fermano i barbari? E da dove ripartiamo noi, come singoli e come collettività? A quali valori vogliamo ancora credere?
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