domenica 15 ottobre 2023

SIAMO IMPOTENTI E CI CHIAMANO TRADITORI L'ODIO PER I PALESTINESI È DEGENERATO

Intervista a Etgar KERET(Israeliano, scrittore e attore)


Nel 2020, dopo che una terribile esplosione aveva scosso Beirut e si parlava di attacchi terroristici

su larga scala, la stand up comedienne libanese Carmen Chraim ha risposto alla domanda su come facesse tutte le sere a salire su un palco per fare battute non conoscendo la sorte del proprio Paese: «Bisogna provarci», ha detto laconica. Il modo che ha Etgar Keret di continuare a provarci passa dalla letteratura umoristica, che per lui diventa una questione privata, scudo all’incertezza e alla violenza che troppe volte ha visto esplodere.

umorismo l'assurdità di un'esistenza al limite del conflitto è la sua arma.

L’unica che, da pacifista convinto, si concede.

Le chiederei come va, ma...

«È tutto instabile. Quando comincia una guerra il tempo si dilata. Ho la sensazione che in realtà siano trascorsi quattro mesi. Dal momento in cui i terroristi hanno fatto irruzione nei kibbutz

Kfar Aza a quello in cui hanno annunciato le prime vittime, mi sono venuti i capelli bianchi».

E’ l’incertezza a logorarla?

«Più che altro il senso di inutilità».

Impotenza?

«Proprio inutilità. Ho letto da qualche parte che durante la Prima Guerra Mondiale c'erano alcune vedette su dei palloni aerostatici: passavano ore a osservare cosa accadesse al fronte. Il tasso di suicidi tra loro era in percentuale più alto di quello tra i soldati nelle

trincee. Ecco, per chi vive fuori dalla striscia di Gaza è così. Siamo su dei palloni aerostatici e osserviamo».

Non c'è proprio niente che possiate fare?

«C'è chi accetta la propria condizione di vedetta e chi cerca di ribellarsi. Quando i feriti chiamavano aiuto dai loro nascondigli nei cespugli, c'è chi ha preso la macchina e, disarmato, è andato ad aiutarli. Ha rischiato la propria vita per persone che non conosceva».

Da dove è venuto questo impulso?

«È stato automatico. L’energia di chi prima è sceso in piazza per protestare contro Netanyahu si è condensata nell’urgenza di un gesto pratico quando tutti gli errori del governo si sono espressi in una tragedia. Hanno voluto aiutare, dimostrare che la protesta ha un risvolto tangibile. Non vendetta, ma compassione».

E lei la sente questa urgenza?

«Continuamente. Ma quello che faccio io non mi sembra molto utile. Faccio volontariato in un ospizio. Alcuni degli ospiti sono anzianissimi. Hanno difficoltà a seguire le procedure antimissile, quindi sto lì con loro in attesa e intanto parliamo. Ogni tanto vado a leggere per i bambini dei kibbutz evacuati. Mi trovo seduto in un angolo con una bimba di 5 anni a scherzare. Non credo sia

utile ai fini pratici, ma mi fa sentire diverso dalle vedette sui palloni».

Non le sembra importante?

«Se si sommano molte di queste esperienze, lo diventa. Entrambi i miei genitori erano sopravvissuti all'Olocausto, quindi continuavano a chiedere a mia madre di andare a parlare della sua esperienza. Lei ha sempre rifiutato. Diceva: "Ho vissuto l'Olocausto, non lavoro per l’Olocausto". Immagino che distrarsi serva a questo, a scrollarsi di dosso la tragedia. Dal momento in cui ci si comincia a identificare con le vittime in cerca di vendetta, ci si trasfigura come esseri umani. È questo il sentimento che in larga parte affligge Israele: l’idea che si debba lavare col sangue un torto subito. Per questo, sono così preziosi i momenti di normalità».

Immagino che di scrivere non se ne parli...

«No, per niente. In questo momento sono un po' meno di un essere umano. Quasi un essere umano, ma non un essere umano completo. Per scrivere c'è bisogno di tempo e concentrazione. Dovrei potermi sedere e riflettere, avere la mente sgombra. Posso contare solo su brevi attimi».

Cos’è che fraziona il tempo?

«Tutto. La necessità di avere notizie, il pensiero che tra cinque minuti potrei dover svegliare mio figlio perché suona la sirena, che tra dieci qualcuno potrebbe chiamarmi per andare a donare il sangue. È come vivere costantemente nel presente».

Si dice che l’umorismo sia un'arma per esorcizzare la tragedia...

«Cè una cosa che penso, in particolar modo riguardo all'umorismo ebraico: l'umorismo e l'arma dei deboli. I forti non ne hanno

bisogno. Perche' possono cambiare arbitrariamente ciò che non gli piace. Se non si ha questo potere ci sono due cose che si possono fare: arrendersi o scherzarci sopra››.

È un modo per trascendere la violenza?

«È la più valida alternativa. Il mio scrittore umoristico preferito è Saved Kashua, un ebreo palestinese, perché lui è due volte dalla parte sbagliata. È una minoranza per i palestinesi, essendo ebreo, e un nemico per gli israeliani, essendo palestinese. Non ha altro mezzo per proteggersi se non il suo umorismo».

Che notoriamente scivola sotto la cieca arroganza...

«C’è una storiella che credo confermi la mia teoria. Non è divertente. Siamo ai tempi dei pogrom in Russia. Un ebreo sta camminando su un marciapiede stretto e incrocia un cosacco. Il cosacco lo aggredisce: "Non scenderò dal marciapiede e camminerò nel fango per cedere il passo a un insignificante pezzo di merda". L'ebreo allora scende dal marciapiede, nel fango. Lo guarda e

risponde: "Strano, io lo faccio sempre!"».

È divertente...

«Il punto per me è che l’ebreo sarà tornato a casa con i pantaloni sporchi, ma con l’orgoglio intatto di chi ha vinto una battaglia».

E il cosacco?

«Probabilmente non l"ha capita».

Quindi l’umorismo è importante di questi tempi?

«Fondamentale Soprattutto a livello privato, anche perché spesso le battute che si generano in un periodo difficile possono sembrare sbagliate. Sarebbe meglio non divulgarle».

Perché?

«Sono modi per tirare avanti individualmente. C'è una battuta idiota che faccio sempre a mia moglie quando suona la sirena antimissile: "Non preoccuparti, se non soprvviverai mi rifarò una vita con una donna molto più giovane e daremo il tuo nome alla nostra prima figlia". Va bene per noi, non per tutti».

Suo figlio ha diciotto anni, vero?

«Quasi. Ha sei mesi di vantaggio sul servizio militare obbligatorio».

Siete preoccupati?

«Da quando è nato. Un’altra battuta stupida che facevo sempre a mia moglie era: "Quando avrà l'età per servire il Paese, un Paese non esisterà più". Sta cominciando a rinfacciarmela. Quando sono cominciati gli attacchi di questi giorni mi ha fatto: "Ti ho sempre detto che non sei divertente"››.

C'è un momento in cui si smette di provare a scherzare?

«Quando si smette di provarci, si muore. La vita stessa è un tentativo fallimentare: si vive provando a conquistarla e poi si muore. Se non ci si prova, si toglie senso a tutto l’esperimento».

Pensa che cambierà qualcosa nella percezione della sinistra e del pacifismo israeliano?

«Penso che sia già cambiato qualcosa nella definizione di destra e sinistra. Dopo l'escalation di violenza e arroganza di Netanyahu, quando vado alle manifestazioni mi trovo sempre più spesso in compagnia di persone contro le quali avevo protestato. Fascisti, avrei detto. Membri del parlamento. Quindi tutto ridotto al fatto di considerarsi o meno superiori ai palestinesi. È una barbarie».

Mi fa un esempio pratico?

«La sinistra è sempre stata favorevole alla soluzione dei due Stati. Ora penso che prima di pensare ai due Stati mi piacerebbe avere in Parlamento qualcuno che non fosse islamofobico o razzista, per cominciare. Vorrei anche che venissero fatte delle vere leggi contro l’omofobia. Perché la convivenza è indubbiamente auspicabile, ma bisognerebbe innanzitutto liberarsi dell'odio››.

Da cosa deriva questo continuo senso di emergenza?

«C'è una cosa che ho scritto: per tutta la vita ho avuto paura che Israele annettesse i territori occupati e non mi sono accorto quando i territori hanno annesso Israele».

Cosa significa?

«Che il razzismo dei coloni nei confronti dei palestinesi è ovunque. Il loro linguaggio brutale viene esteso a chi protesta: dicono che la polizia non è abbastanza violenta nei nostri confronti. Ora siamo tutti palestinesi. Tutti traditori».

Come andrà a finire?

«Me lo domando da sempre. Posso concludere con una citazione di mio padre?››

Certamente...

«Quando ero piccolo gli ho chiesto: "Pensi che l'Olocausto sia stato il periodo peggiore della tua vita?" Mi ha risposto: "Non ci sono periodi migliori o peggiori, solo periodi facili e periodi difficili. Ho imparato che i tempi facili sono più divertenti, ma che è dai tempi difficili che si impara qualcosa". Questi sono tempi difficilissimi, ma stiamo imparando molto di noi stessi».

 

Nessun commento:

Posta un commento