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INVISIBILI

(Dal romanzo "Andavamo lontano" di Antonio ELIA, pagg. 134-137)

Quando Mario aprì la porta si trovò di fronte nella penombra del pianerottolo poco illuminato una figura informe dalla quale a mala pena emergeva un volto affaticato, riconobbe subito il venditore di tappeti e come nelle innumerevoli occasioni precedenti si stava preparando a declinare l’offerta, con gentilezza ma con fermezza. Non aveva bisogno di tappeti, anche se – lo riconosceva – i prezzi erano convenienti, bisognava solo contrattarli con destrezza e decisione… l’uomo, non più giovane, aveva scaricato il suo pesante fardello e la sua figura alta, slanciata, il viso brunito dal sole, si stagliava in controluce nel vano della porta proiettando su Mario la sensazione di trovarsi di fronte a suo padre. Fu investito da un moto di tenerezza che gli tolse lucidità e lo distolse dal proposito di declinare senza indugio l’offerta; si ritrovò a invitare quella proiezione in cucina, a preparargli un panino e una tazza di tè, a comprare, infine, una confezione di sei paia di calze da tennis di cui non aveva bisogno e che non avrebbe mai usato. «Nella penombra sembrava mio padre» avrebbe detto a sua moglie che gli chiedeva perché avesse acquistato tanti calzini e mentre le parlava quel moto di disarmante tenerezza era tornato e lo commuoveva.

O come quell’altro venditore di tappeti che non somigliava per niente a suo padre neanche al buio di quella serata torinese lungo via Carlo Alberto infreddolita e male illuminata. Gli aveva rivolto le solite frasi e di fronte al cortese rifiuto se n’era uscito con un’espressione dolorosa: «Oggi non ho venduto niente, fratello, aiutami», ma lui non lo aveva aiutato e forse, chissà, sarebbe stato contento di ricevere anche solo cinquanta lire. La fretta e gli impegni lo avevano poi distratto e non ci aveva più pensato fino a notte, quando ricordò quella frase ed ebbe voglia di raccontare l’incontro a Carla. Cosa c’era da raccontare poi! Di incontri di quel tipo ne aveva fatti a ogni angolo di strada… ma nessuno lo aveva chiamato “FRATELLO” con quel tono… e mentre pronunciava quella parola fu sommerso da un pianto convulso, singhiozzante, irrefrenabile. Non capiva perché, continuava solo a ripetere «Capisci, Carla, mi ha chiamato fratello…». Più tardi pensò che meno male che i bambini erano già andati a letto e non lo avevano visto in quello stato, non certo perché non avrebbe voluto farsi vedere in una condizione di debolezza, quanto perché credeva che non avrebbe saputo dare una spiegazione comprensibile e i bambini non avrebbero capito; ma forse di fronte ai bambini non sarebbe stato sopraffatto dal turbamento, probabilmente l’avrebbe razionalizzato pensando che era stato colpito da un’espressione inaspettata… cos’altro!

In realtà erano altre le ragioni del suo turbamento, avevano a che fare con la sua epidermide sensibile, scorticata dall’esperienza, non tanto la sua, che quella in fondo se l’era voluta (sì, sopportando una mancanza che aveva contorni cerebrali e astratti) e non comportava privazioni, disagi materiali, esclusioni, apartheid, ma quella di Genio e di Nanu, di Tonino, Agostino, Luigi ecc. che venti anni prima erano emigrati in Svizzera-Francia-Belgio-Germania e avevano sofferto disagi morali e materiali, sì l’apartheid e l’esclusione, avevano perso l’identità e la visibilità. Come Mohammed e come i venditori di tappeti, come gli uomini delle cassette che battevano le strade e le piazze e non si sapeva dove dormivano e mangiavano, né se c’era qualcuno che di sera li aspettava, una donna, dei bambini, una madre, o se dormivano in una macchina (come Mohammed) o sotto il ponte o nel casello abbandonato lungo la ferrovia che per raggiungerlo devi fare due chilometri a piedi di strada ferrata o quattro di strada sterrata in campagna o in qualche fabbricato dismesso mezzo diroccato. E chissà se ci sarà qualche regista o qualche giornalista che li documenterà questi disagi[1] – pensava Mario – questa vita da clandestini, esclusi e invisibili, come è stato per i nostri con i documentari di Alexander J. Seiler il cineasta svizzero Palma d’oro a Cannes nel 1963 con il film “A fleur d’eau” che nel 1964 con il lungometraggio “Siamo italiani” uno dei suoi capolavori girato in bianco e nero aveva documentato la vita degli emigranti italiani in Svizzera  costretti a fare i conti con le discriminazioni gli etichettamenti gli stereotipi che non erano poi diversi da quelli che oggi gli italiani riversano sugli immigrati stranieri: sporchi minacciosi ed estranei. Seiler documenta che gli immigrati sono considerati “non cittadini” e l’assurda negazione di uno status diventa così la qualificazione di un’esistenza.

Seiler ritornerà ancora nel 2002 sul tema con un altro memorabile documentario dal titolo “Vento di settembre” ideale continuazione del primo che indaga la cosiddetta emigrazione di ritorno di chi dopo quarant’anni ha lasciato la Svizzera ed è tornato nel proprio paese dove vive un nuovo sradicamento. Che cosa è rimasto di quelle esistenze? Che traccia hanno lasciato nei luoghi di origine e in quelli di approdo? Sono destini compiuti o dimezzati dall’estraneità di chi li ha forzatamente incorporati?

Mohammed avrebbe voluto far venire in Italia la sua unica[2] moglie e i tre figli ma doveva fare i conti con le difficoltà del trovar casa. Non era una difficoltà esclusiva dei nuovi immigrati, lo era stata per i vecchi dei flussi migratori interni, e lasciamo stare i prezzi degli affitti sempre troppo alti per chi aveva salari appena sufficienti per vivere o non aveva un reddito sufficiente neanche per quello. Mario ricordava i cartelli esposti sui portoni dei palazzi “NON SI AFFITTA AI MERIDIONALI” (non che gli avesse visti lui di persona, era ancora giovane per quello…)  e l’umiliazione dei rifiuti e sentirsi in colpa se si avevano dei bambini che facevano più paura dei meridionali adulti e non c’era verso di impietosirli quei proprietari che nella graduatoria delle disgrazie da evitare mettevano i bambini al primo posto seguiti dagli animali (cani e gatti, per non parlare delle galline e dei conigli allevati nelle vasche da bagno!![3]) e dalle donne sole.

La solfa era ricominciata con gli extracomunitari. Non si vedevano cartelli con la scritta “Non si affitta agli extracomunitari” ma i rifiuti erano assicurati e le motivazioni identiche con l’accento sulla pulizia sul numero dei bambini sulla morosità, le eccezioni riguardavano stabili fatiscenti locati a prezzi speculativi e solo con la garanzia dell’intervento patrimoniale sostitutivo di qualche conoscente italiano o associazione caritatevole in caso di morosità o di altre richieste proprietarie.

Mohammed si era rivolto a Mario per risolvere il problema e così aveva potuto ricongiungersi alla sua famiglia.

 



[1] Ci sarà certamente tra gli immigrati di seconda generazione, per ora quello status è documentato da film e documentari di cineasti dei paesi accoglienti. Per tutti basti ricordare “Lamerica” di G. Amelio, “La nave dolce” di D. Vicari, “Miracolo a Le Havre” di Aki Kauriasmaki.

[2] Da musulmano avrebbe potuto averne legalmente fino a quattro, e lo avrebbe voluto, ma era troppo povero e non avrebbe potuto permettersela una famiglia così allargata. Magari ci avrebbe pensato più avanti.

[3] Quella delle vasche da bagno utilizzate dagli immigrati meridionali come stie e conigliere è una delle leggende metropolitane più note del periodo. Che in qualche caso, per brevi periodi di tempo, non sapendo dove tenerli e non essendo raro il caso di abitazioni prive di balconi esclusivi, siano stati usati i bagni come ricovero provvisorio è certamente plausibile, ma è il riferimento alle vasche da bagno che risulta improbabile, considerato che nei vecchi edifici locati agli immigrati il gabinetto spesso era in comune e collocato all’esterno degli appartamenti in un angolo del balcone (comune) di ringhiera.

LE ARMONIE DI VALUSKA

Un breve racconto inviato al programma radiofonico Radio1 Plot Machine. Un'estrapolazione dal romanzo Melancolia della resistenza dello scrittore ungherese László Krasznahorkai,  che immagina un diverso destino per  Valuska, l'estemporaneo personaggio, postino per vocazione, ma non per professione, che nel romanzo finisce i suoi giorni in un manicomio in perenne stato catatonico.

Ehi, János, che si dice oggi nel cosmo?
Dal giorno dell’internamento in manicomio a Valuska nessuno aveva rivolto quella domanda, né lui l’avrebbe mai più ascoltata se non fosse stato per le amorevoli attenzioni del suo mentore Eszter.
Valuska non era un astronomo e neanche un postino, ma era sia l’uno che l’altro. In manicomio non era più niente, vegetava in una penosa condizione catatonica, l’anima rinsecchita nella bianca camicia d’ospedale.
Fu Eszter a restituirlo alla vita attiva.
Allo psichiatra che lo curava aveva suggerito:
Vestendo la sua divisa da postino, ritroverebbe una ragione di vita.
Era stata una vita elementare, quella di Valuska, impegnato ogni giorno in interminabili corse per la città con indosso il pastrano blu scuro, il berretto d’ordinanza e l’immancabile borsa di cuoio a tracolla; fino a sera, quando nella mescita Pefeffer, in cambio di un bicchiere di fröccs spiegava le eclissi e il moto dei pianeti.
Proviamo, acconsentì il buon dottore.
La divisa lo rianimò.
All’inizio sembrava non riconoscersi, si guardava con meraviglia, poi fu una rinascita, favorita dalle corse tra i padiglioni del manicomio per consegnare documenti e messaggi affidatigli da dottori e infermieri.
Riprese anche a parlare del cosmo e grande fu la meraviglia degli internati quando poté inscenare una dimostrazione pratica del moto dei pianeti, attraverso la quale anche quegli uomini semplici e sofferenti avrebbero potuto vedere l’eternità.

Antonio ELIA
 

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