Nella Carta americana una citazione esplicita. Ma anche il Presidente Mattarella vi ha fatto riferimento diretto. Aggiornando un'idea che risale all'Illuminismo. di Michele ANAIS
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Esiste un diritto ad essere felici? Magari: nella vita di ciascuno la felicità assoluta è un’eccezione, dura un istante e vola via. Eppure la più antica Costituzione del pianeta – quella americana – lo menziona. E il presidente Mattarella (che è un professore di diritto costituzionale, benché nessuno mai se ne rammenti) ha rievocato quella dichiarazione normativa, intervenendo al Meeting di Rimini, qualche giorno fa. E ricordando come fu proprio un italiano – Gaetano Filangieri – a influenzare Benjamin Franklin, che in un primo tempo intendeva riferirsi al diritto di proprietà, non alla felicità. Fra il giovane filosofo napoletano e il padre fondatore americano correva infatti un rapporto epistolare, intessuto d’osservazioni e di consigli. Altri tempi: oggi se un ragazzo volesse indirizzare una mail a Joe Biden, finirebbe nel cestino dello spamming, ammesso che riesca a procurarsi il suo recapito elettronico.
Ma cosa rimane di quell’esperienza costituzionale, che significati ci trasmette? E c’è dopotutto un’eco che vibra nella nostra stessa Carta?
Filangieri pubblicò la sua opera più celebre –La scienza della legislazione , in sette volumi – fra il 1780 e il 1785. Rileggiamone l’incipit, parrebbe scritto adesso. «Quali sono i soli oggetti che hanno fino a questi ultimi tempi occupato i sovrani di Europa? Un arsenale formidabile, un’artiglieria numerosa, una truppa bene agguerrita». Da qui la sua rivolta intellettuale, che culmina in una massima sovente ripetuta: «Le buone leggi sono l’unico sostegno della felicità nazionale». E quella massima riflette, come in un gioco di specchi, il passo che figura nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, firmata a Filadelfia il 4 luglio 1776: i diritti «inalienabili» della persona umana comprendono «la vita, la libertà e il perseguimento della felicità».
L’accento sulla felicità – sulla sua ricerca, sulle condizioni che la rendano possibile – fu un tratto tipico dell’Illuminismo.Nella Critica della ragion pratica Kant collegava la felicità all’idea di libertà: «Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo, ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona». Pietro Verri, nelle Meditazioni sulla felicità , la riconnetteva alla certezza dei diritti e all’eguaglianza. E sull’eguale distribuzione delle ricchezze insisteva lo stesso Filangieri, oltre che sul diritto al lavoro: «Quando ogni cittadino in uno stato può, con un lavoro discreto di sette o otto ore al giorno, comodamente, supplire a’ bisogni suoi e della sua famiglia, questo stato sarà il più felice della terra».
Dunque nel Settecento la felicità si colloca in una dimensione pubblica, investe il rapporto fra lo Stato e i cittadini. Rovesciando il concetto di eudaimonia elaborato dal pensiero greco: da Aristotele a Epicuro la felicità veniva difatti concepita come soddisfazione individuale, come percorso del singolo per approdare al bene. Ora non più; e alle istituzioni spetta il compito di favorirla, o almeno di non ostacolarla. La felicità è del popolo, o altrimenti di nessuno. Come scrisse Madison nel saggio n. 45 del Federalist – l’opera più celebre sulla Costituzione americana, ideata per appoggiare la ratifica del testo elaborato dalla Convenzione di Filadelfia – se la sovranità statale dovesse impedire la felicità pubblica, «c e la prima sia sacrificata alla seconda».
In quest’accezione il concetto penetra nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, con cui la Francia, nel 1789, si dota a sua volta d’una Costituzione scritta: il fine delle istituzioni è «la felicità di tutti», si legge nel Preambolo. Ma è l’ultimo fuoco, perché da allora in poi quella parola magica scompare dai testi normativi. Se ne ravvisa un’eco nel progetto costituzionale di Leopoldo I, Granduca di Toscana. O nel Preambolo dello Statuto albertino, promulgato da Carlo Alberto di Savoia nel 1848. Pallide eccezioni, giacché nell’Ottocento il positivismo giuridico respinse i principi troppo indeterminati, i concetti figli del giusnaturalismo, del «diritto naturale» delle genti. E anche la Costituzione giapponese del 1946 – il cui articolo 13 cita il diritto al «perseguimento della felicità»
– non è a conti fatti un’eccezione, dato che quella Carta costituzionale venne scritta sotto dettatura degli americani, alla fine della seconda guerra mondiale.
Un diritto incenerito, quindi? Non del tutto. Intanto, c’è la risoluzione adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 2012, che definisce la ricerca della felicità «scopo fondamentale dell’umanità», e che proclama il 20 marzo Giornata internazionale della felicità. Da qui, ogni anno, ilWorld Happiness Report, nel quale (ahimè) noi italiani perdiamo posizioni: nel 2023 ci tocca il 33° posto, sotto Paesi come la Romania, Taiwan, la Costa Rica. In secondo luogo, non manca chi ne proponga la riesumazione, per introdurlo – nero su bianco – nella nostra Costituzione. Così, per esempio, la proposta di legge depositata il 23 dicembre 2019 alla Camera; o la Fondazione Guido Carli, con un convegno alla Luiss nel marzo 2021.
Ma non ce n’è bisogno, non serve una riforma. Quel diritto sopravvive – sia pure con un abito diverso – in un paio di disposizioni costituzionali, le stesse norme richiamate dal presidente Mattarella. L’articolo 2, che protegge i diritti «inviolabili» dell’uomo, formula che riecheggia il diritto «inalienabile» alla felicità menzionato dalla Carta americana. L’articolo 3, che impegna la Repubblica a «rimuovere gli ostacoli» che impediscono il pieno sviluppo della persona umana; e anche qui risuona l’eco del «perseguimento della felicità», di cui parla la Dichiarazione d’indipendenza del 1776. Giacché la Costituzione – quella italiana, al pari di quella americana – non promette il paradiso in terra, la felicità per tutti; ma garantisce a ognuno l’opportunità di perseguirla, come un diritto innato che ci accompagna nel nostro stare al mondo.
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